Il 5 Marzo 2018 è iniziato presso il Tribunale di Milano il processo per la presunta maxi tangente ENI in Nigeria. L’accusa, guidata dal PM Fabio de Pasquale, considera la multinazionale italiana coinvolta nel reato di corruzione, con il pagamento di una tangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari. Sarebbe la “mazzetta” più grande mai scoperta dai tempi di “Mani Pulite”. Secondo l’accusa, Eni lo avrebbe fatto per ottenere una concessione petrolifera, relativa al giacimento OPL 245.
I protagonisti della vicenda
Le personalità coinvolte nella vicenda ricoprono ruoli di spicco sia in Italia che in Nigeria. Tra questi c’è Dan Etete, uomo d’affari e ministro del Petrolio in Nigeria nel 2011, Emeka Obi, affarista nigeriano, Claudio De Scalzi, attuale CEO di Eni e Paolo Scaroni, ex AD di Eni. Inoltre sono stati chiamati in causa anche Vincenzo Armanna, vicepresidente Eni in Nigeria, Roberto Casula, numero 3 della multinazionale e Jonathan Goodluck, ex Presidente nigeriano.
Il verbale di Etete
La ricostruzione della presunta vicenda della tangente è stata possibile grazie alla collaborazione di Dan Etete. Etete, già condannato in precedenza per riciclaggio, nel 2012 venne chiamato a testimoniare in un processo a Londra. Al giudice britannico dichiarò di aver subìto una “frode criminale”. Il reato a cui si riferiva il politico nigeriano era l’appropiazione illecita di 200 milioni di dollari intascati, secondo le sue parole, dai quattro massimi dirigenti Eni del tempo. Il verbale “choc” ha trovato una conferma il 30 luglio 2014, nelle dichiarazioni di Vincenzo Armanna durante un colloquio avvenuto con un avvocato della Shell.
L’antefatto
L’inizio della vicenda risalirebbe all’Aprile 2010, quando l’allora manager Claudio De Scalzi incontrò Etete per contrattare il ritorno di Eni nel business del petrolio nigeriano. L’incontro, confermato da SMS, mail e documenti, aveva per oggetto l’interessamento per un particolare giacimento nigeriano, l’OPL 245. Già il 28 dicembre 2009 Etete incontrò a Lagos Vincenzo Armanna, fissando il prezzo per il giacimento a 2,5 miliardi di dollari. Armanna, ritenendo la cifra troppo elevata, decise di trattare direttamente con Emeka Obi, con il quale i manager italiani decisero di alzare il prezzo di 200 milioni di dollari.
Etete in seguito accusò lo stesso Obi di frode e riciclaggio poiché rivendicava una parcella di 215 milioni di dollari in quanto mediatore della contrattazione. In aggiunta a ciò, Etete affermò la totale inutilità di un intermediario in quanto conosceva dal 2008 i dirigenti dell’Eni, in seguito ad un incontro con l’allora premier Prodi per un contratto di gas.
La vicenda del giacimento OPL 245
Il protagonista della trattativa dell’Eni in Nigeria era il giacimento petrolifero OPL 245, già in precedenza oggetto di una vicenda di corruzione. Nel 1998, infatti, il governo nigeriano, sotto la dittatura di Abacha Sani e sempre con Etete ministro del Petrolio, assegnò una concessione alla società offshore Malabu. Dietro la Malabu, in realtà si celavano le figure di Etete e di Mohamed Sani (figlio del dittatore), che acquistarono il giacimento per 20 milioni di dollari (versandone solo 2) e lo rivendettero in seguito all’ENI per la cifra record di 1 miliardo e 92 milioni.
Gli sviluppi successivi
Nel 1999, in seguito alla morte di Abacha, la Svizzera confessò di avergli sequestrato tangenti per un totale di 3 miliardi di franchi solo a Ginevra. La prima mossa del nuovo premier nigeriano, Olusegun Obasanjo, fu la revoca della concessione dello sfruttamento del giacimento OPL 245 alla Malabu. Nel 2006, tuttavia, la società offshore riottenne la concessione grazie all’intervento del ministro Bayo Ojo San, ringraziato dallo stesso Etete con un versamento di 10 milioni di dollari. Sul versante italiano, Eni nel 2010 patteggiò con le autorità americane una mega sanzione di 236 milioni di dollari in aggiunta ad ulteriori 25 milioni di euro confiscati dalla Procura di Milano per la questione del gas nigeriano durante gli anni ’90.
L’effettivo beneficiario del pagamento
Il 24 maggio 2011, Eni comprò la licenza per OPL 245 versando la cifra di 1,092 miliardi su un conto del governo nigeriano a Londra, senza più passare per Obi come intermediario. Nonostante ciò, lo Stato africano negò di aver ricevuto i soldi. In seguito si scoprì che il denaro venne girato ad un conto svizzero della società offshore Petro Service. Il bonifico effettuato presso la JP Morgan a Londra venne però rifiutato dalla banca BSI.
Il “cammino” della tangente
In seguito al fallimento del bonifico indirizzato in Svizzera, scomparvero 801 milioni di dollari, dei quali 400 finirono alla Malabu. Il resto venne distribuito tra società offshore ancora anonime, faccendieri e politici nigeriani, tra i quali l’ex ministro della Giustizia Bayo Ojo.
Nell’agosto del 2011 401 milioni di dollari vennero versati sul conto di tre società offshore controllate da Abubakar Aliyu, fiduciario del presidente Goodluck. Questi ritirò in banca circa 54 milioni contanti, mentre la restante parte venne spartita tra prestanome di senatori, deputati ed ex-ministri. Dopo aver rivendicato il pagamento di 215 milioni come commissione da mediatore, Obi ricevette su imposizione del giudice civile londinese una cifra pari a 112 milioni di dollari versata da Etete come parcella. Il tribunale riconobbe quindi l’effettiva presenza di un mediatore nell’operazione.
I rapporti di Etete e Obi
Secondo quanto riportato dall’organizzazione anti-corruzione Re:Common, il rapporto tra Goodluck, ex premier nigeriano ed Etete è molto stretto. Ciò deriva dal supporto gratuito che Goodluck ha fornito ad Etete ed alla sua offshore per l’incasso del denaro versato dalla multinazionale, impedendo di far entrare i soldi allo Stato. D’altro canto, la campagna di Obi contro Etete è stata finanziata da un italiano, Gianluca di Nardo. Questi, precedentemente condannato in USA per insider trading, ricevette dal faccendiere alcuni milioni su un conto in Svizzera.
La posizione dell’accusa
Il PM italiano Fabio De Pasquale convinse i giudici londinesi a sequestrare il tesoro conteso tra Obi ed Etete, pari a 195 milioni di dollari, di cui 85 depositati a Londra ed i restanti 110 spostati in Svizzera. La rogatoria redatta dal magistrato evidenzia la “visione limitata” del giudice civile inglese, poiché sprovvisto delle prove raccolte in Italia. Tra di esse è emersa in particolare l’effettiva spartizione del denaro versato dalla multinazionale al governo africano. Proprio da qui nasce l’ipotesi della maxi-tangente, che aprì lo scenario al reato di “corruzione totale”.
La posizione di Eni
L’ufficio legale Eni ha smentito l’accusa di corruzione, evidenziando la liceità dell’operazione in Nigeria per OPL 245. In aggiunta a ciò, ha rivendicato la totale assenza di una figura intermediaria, affermando di aver trattato direttamente con il governo nigeriano al quale ha versato l’intero corrispettivo. Qualora l’attività corruttiva dovesse però trovare conferma, Eni si ritroverebbe a pagare una multa di 9 miliardi di euro a titolo di risarcimento nei confronti del governo nigeriano. Il nuovo premier locale, Muhammadu Buhari, infatti, ha adottato la linea dura, declinando le proposte politiche di chiudere la vicenda senza processi o sanzioni.
Esami e condanne
De Scalzi e Scaroni, insieme agli altri 11 imputati potrebbero essere interrogati in aula sulla vicenda. La richiesta proviene dall’accusa, formata dai PM De Pasquale e Sergio Spadaro, intenzionata ad interrogare tutti gli indagati per corruzione internazionale. I manager, come gli altri, potrebbero decidere di rinunciare all’esame. Il collegio, presieduto da Marco Tremolada ha escluso dal processo Obi e Di Nardo, entrambi condannati alla reclusione per 4 anni con rito abbreviato.